Fast fashion: l’insostenibile costo ambientale e sociale della moda a basso costo. Impatto della produzione e rifiuti tessili

La moda veloce, o fast fashion, ha conquistato tutti grazie alla facilità d’acquisto ed al basso costo. Ma dietro a quel risparmio di tempo e denaro si nascondono significativi impatti ambientali e sociali.

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Fast fashion: l’insostenibile costo ambientale e sociale della moda a basso costo. Impatto della produzione e rifiuti tessili

La fast fashion (letteralmente “moda veloce”), offre una disponibilità costante di nuovi stili di abbigliamento a prezzi molto bassi. Una moda low cost, in cui i capi di maggiore tendenza sono reperibili ovunque e a basso costo. Questo fenomeno, che è dilagato negli ultimi anni, ha portato a un forte aumento della quantità di indumenti prodotti, utilizzati e poi scartati. Spesso diventano rifiuti, sebbene resi e mai utilizzati, nuovi. A fronte di un basso costo immediato per l’utente, esiste un costo molto più significativo per l’ambiente e, al tempo stesso, per l’uomo.

Chi compra deve sapere che quel piccolo risparmio personale cela un colossale prezzo nascosto, un debito verso l’ambiente e la società. Il seducente basso costo, che fa gola a tutti noi, nasconde sovente significativi impatti ambientali e sociali. Per poter infatti ammortizzare il costo e massimizzare i profitti, le aziende spesso ricorrono a sistematiche politiche di sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente.

Shopping compulsivo, reso facile, abbigliamento usa e getta. In principio erano i grandi magazzini, poi l’avvento dei vari centri commerciali, outlet, grandi catene di abbigliamento internazionale, e infine lo shopping online ovunque ci si trovi in giro per il mondo. È un tripudio di sistemi e applicazioni per l’acquisto facile e immediato. Ormai basta un click per avere comodamente a casa qualsiasi prodotto si possa desiderare, dai numerosi siti web e applicazioni come Amazon, Zalando, Alibaba, Zara, H&M, OVS, Asos, Shein, Temu e Vinted.

Nell’orientare le preferenze d’acquisto, oltre ai mezzi tradizionali (tv, giornali, passaparola), è sempre più importante l’influenza del web attraverso pubblicità mirate e banner e, soprattutto, quella dei social media e il ruolo chiave degli influencer (Ferragni & co) che guida e condiziona le scelte dei consumatori, spesso ossessionati dal voler replicare quel modello considerato vincente e di successo. Ma, a quale prezzo?

La moda dei consumi

Gli italiani sono primi al mondo per acquisto di capi d’abbigliamento. Un primato italiano secondo il rapporto “Global Lifestyle Monitor 2018” realizzato da Cotton Usa su un campione di circa mille persone. Rispetto ai consumatori globali, gli italiani possiedono in media più capi d’abbigliamento e persino più tessili per la casa: 17,5 capi intimi (contro una media globale di 12), 15,5 t-shirt (vs 11), 6 paia di jeans (vs 5,4), 12 asciugamani da bagno (vs 5,8) e 6,3 lenzuola (vs 5).

Costo ambientale fast fashion

L’industria della moda vanta un fatturato in costante crescita. L’Italia è il Paese della moda per eccellenza, di quel “Made in Italy” celebrato e apprezzato in tutto il mondo. Secondo il “Global Powers of Luxury Goods 2023” di Deloitte, l’Italia si conferma primo Paese del lusso a livello mondiale, con 23 aziende tra le top 100 del settore Fashion & Luxury ad un tasso di crescita medio del 19.4%. Prada (18°), Moncler (27°) e Giorgio Armani (30°) i tre principali marchi che, da soli, realizzano 1/3 delle vendite totali realizzate dalle aziende italiane presenti nel ranking. La moda è un settore che non conosce crisi: nel 2022 le prime 100 aziende hanno fatturato 347 miliardi di dollari, in crescita del 20% rispetto all’anno precedente.

Valore globale del Fast Fashion dal 2021 al 2027 (fonte: Statista)
Valore globale del Fast Fashion dal 2021 al 2027 (fonte: Statista)

In opposizione alle grandi aziende del lusso, a partire dagli anni ’90, si è sviluppata la cosiddetta fast fashion, un’industria della moda a basso costo e di veloce produzione che è cresciuta tanto rapidamente da vantare oggi un fatturato molto vicino alle aziende del lusso. Oggi, i due pesi massimi dell’industria europea del fast fashion sono H&M e il gruppo spagnolo di vendita al dettaglio Inditex, che possiede una famiglia di marchi tra cui Zara, Berksha e Massimo Dutti, tra gli altri. Solo il colosso del lusso francese LVMH ha battuto le due società di fast fashion.

Diceva Pasolini che, laddove il Fascismo ha fallito, la civiltà dei consumi ha trionfato, assimilando “a sé l’intero paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali”, attraverso “un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. […] Non si accontenta più di un «uomo che consuma», ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane”.

I grandi marchi del lusso e della moda si arricchiscono ogni anno sempre più e, non ci sarebbe nulla di male se non fosse che la società nel suo insieme s’impoverisce, a livello di diritti e portafoglio. Mentre l’inflazione galoppa a ritmo inesorabile, almeno in Italia, gli stipendi sono fermi al palo da 30 anni (dal 1991, +1% contro il +32,5% nell’area Ocse).

Fast Fashion: la moda a basso costo “usa e getta

Abiti venduti e resi subito. Accessori progettati per durare una stagione soltanto e destinati a rompersi nel giro di poche settimane per poi finire in discarica o nel Sud del mondo. Con produzione di massa, bassa qualità e prezzi irrisori, l’industria del fast fashion genera enormi quantità di rifiuti e inquinamento. E dietro le false promesse di sostenibilità, spesso si nasconde il Greenwashing e un impatto ambientale e sociale devastante. A livello globale, l’industria della moda è responsabile della produzione di circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno, la maggior parte delle quali viene conferita in discarica o incenerita.

Dal 20° secolo, l’abbigliamento è stato sempre più considerato usa e getta e il settore è diventato altamente globalizzato, con capi spesso progettati in un paese, fabbricati in un altro e venduti in tutto il mondo a un ritmo sempre crescente. Questa tendenza si è accentuata negli ultimi anni dall’emergere del fenomeno della cosiddetta “moda veloce”, che ha portato a un raddoppio della produzione.

Trend delle vendite e utilizzo abbigliamento dal 2000
Trend delle vendite e utilizzo abbigliamento dal 2000 al 2015 (fonte: Ellen MacArthur Foundation)

Nella sola Unione Europea, ogni anno vengono gettate via 5 milioni di tonnellate di vestiti e calzature (circa 12 chili per persona) e l’80% di questi finisce tra inceneritori e discariche. Meno dell’1% dei vecchi vestiti, infatti, viene riciclato per creare nuovi capi. Quando non finiscono nelle discariche e negli inceneritori europei, i capi di abbigliamento vengono esportati in altri Paesi e da qui se ne perdono le tracce.

Numeri fast fashion

Tutta questa frenesia all’acquisto, spesso compulsiva e immotivata, ha quella vocazione consumistica tipica del sistema economico capitalista del “take, make, waste” (prendi, produci, butta via) nel quale viviamo. Un sistema ormai maturo e organizzato. Le pubblicità sono evolute, emancipandosi dal tubo catodico, per arrivare a conquistare nuove possibilità e, con l’ausilio di web, social e influencer, creano rapidamente bisogni sempre più profondi e radicati e nuovi. Il settore della moda da parte sua, risponde e spesso anticipa creando sempre nuovi gusti e tendenze, capi d’abbigliamento che si rinnovano ad un ritmo estenuante e, talvolta, schizofrenico.

Uno degli argomenti più urgenti con le aziende di fast fashion sono le questioni etiche. Le fabbriche da cui marchi come Inditex, H&M, Primark, ASOS e New Look acquistano i loro prodotti si trovano prevalentemente nei paesi in via di sviluppo, dove il costo della manodopera è basso e le condizioni di lavoro potrebbero non essere dei più alti standard.

Un altro problema del fast fashion è l’impatto ambientale associato alla qualità e quantità di capi di abbigliamento prodotti. La natura del fast fashion fa sì che vengano prodotte enormi quantità di capi di abbigliamento, spesso utilizzando materiali e processi dannosi per l’ambiente. Ma, sebbene negli ultimi anni le aziende di moda hanno lavorato per ridurre la propria impronta di carbonio, la maggior parte di questi indumenti finisce nelle discariche, con circa 790mila tonnellate di rifiuti tessili prodotti dalle famiglie nell’UE nel 2020.

L’impatto ambientale del settore della moda

Il basso costo, la facilità dell’acquisto – ovunque ci si trova, con un semplice click sulle innumerevoli applicazioni e siti web – e la varietà dei prodotti – sempre nuovi e di frequente – favorisce la logica della sostituzione: sovente i vestiti vengono messi una volta e gettati via, rivenduti o resi quasi subito.

Il modello lineare del ciclo di vita della moda (fonte: Ellen MacArthur Foundation)
Il modello lineare del ciclo di vita della moda (fonte: Ellen MacArthur Foundation)

Tuttavia, aldilà delle questioni prettamente economiche e di principio, è un modello di consumo totalmente insostenibile, che cela gravissimi impatti ambientali e sociali, di sfruttamento dell’ambiente e dei lavoratori, a discapito dei diritti e della qualità del vivere. Questo avviene in tutte le sue fasi, nell’intera filiera del settore della moda, dal reperimento della materia prima (o fibra), alla produzione del filato e tessuto, fino al confezionamento del capo d’abbigliamento, all’uso, fino al rifiuto finale. Si stima che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio (più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime messi insieme).

Questo modello economico lineare, predominante nel settore della moda, è gravemente inquinante, a differenza dell’economia circolare che chiude il ciclo di vita puntando sul riuso e riciclo come pratiche virtuose per ridurre l’impatto ambientale, occupandosi di tutte le fasi del prodotto fino a fine vita.

Se si considera poi che oltre il 60% dei tessuti sono plastiche (nylon, poliestere, acrilico), fibre sintetiche derivate dai combustibili fossili come gas e petrolio dall’elevato impatto ambientale, sia nella fase di produzione dei tessuti che nelle successive fasi di vita del prodotto (dall’uso allo smaltimento finale): l’abrasione dovuta all’uso ed ai lavaggi rilascia infatti migliaia di microplastiche nell’ambiente, inquinando ulteriormente fino a fine vita. 

L’impatto ambientale della produzione tessile

Si stima che l’industria della moda sia responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio (più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime messi insieme) e che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale delle acque pulite dovuto ai prodotti chimici e additivi utilizzati nella tintura e finissaggio. Ci vuole molta acqua per produrre tessuti, oltre a terra per coltivare cotone e altre fibre. Sebbene l’11% degli europei e il 25% della popolazione mondiale siano colpiti dalla scarsità d’acqua, per realizzare una singola maglietta di cotone sono necessari 2.700 litri di acqua dolce, che equivale al il fabbisogno di acqua potabile di una persona per 2,5 anni (fonte: Parlamento Europeo).

Il rapporto “Pulse of the Fashion Industry 2017”, della Global Fashion Agenda (GFA), stima che nel 2015 l’industria mondiale del tessile e dell’abbigliamento sia stata responsabile del consumo di 79 miliardi di metri cubi di acqua, 1.715 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 e 92 milioni di tonnellate di rifiuti, previsti in aumento del 50% entro il 2030.

L’impatto ambientale della produzione tessile

Si stima che la produzione tessile sia responsabile di circa il 20% dell’inquinamento globale delle acque pulite dovuto ai prodotti di tintura e finissaggio e del 10% delle emissioni globali di carbonio, più dei voli internazionali e delle spedizioni marittime messi insieme. Meno della metà degli abiti usati viene raccolta per essere riutilizzata o riciclata, e solo l’1% degli abiti usati viene riciclato in abiti nuovi, poiché solo ora stanno iniziando a emergere le tecnologie che consentirebbero di riciclare gli abiti in fibre vergini.

Nel 2020, il settore tessile è stato la terza fonte di degrado idrico e di utilizzo del suolo. In quell’anno, sono stati necessari in media nove metri cubi d’acqua, 400 mq di terreno e 391 kg di materie prime per fornire vestiti e scarpe, a ciascun cittadino dell’UE. In media gli europei utilizzano quasi 26 chili di prodotti tessili e ne scartano circa la metà (11 kg/anno). Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per la maggior parte (87%) vengono inceneriti o smaltiti in discarica. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente (EEA), gli acquisti tessili nell’UE nel 2020 hanno generato circa 270 kg di emissioni di CO2 pro capite, un totale di 121 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra.

Fibre tessili: le materie prime della moda

La produzione delle materie prime è responsabile di gran parte dell’impatto ambientale dell’industria tessile e dell’abbigliamento e, sorprenderà sapere che non dipende solo dalla loro artificiosità. Le fibre naturali come il cotone (se non biologico) hanno infatti gravi problematiche ambientali. Ma cominciamo dall’inizio.

Tessuti e materie prime utilizzati nella fast fashion

Le materie prime tessili o fibre si distinguono in:

  • fibre naturali di origine vegetale (cotone, lino, juta, canapa, ortica) e animale (lana e seta);
  • fibre artificiali (rayon, viscosa, acetato, triacetato, elastodene);
  • fibre sintetiche (poliesteri, poliammidiche, acriliche, aramidiche, poliuretaniche, polipropileniche e polietileniche, nylon, lycra, pile).

Tralasciando la prima categoria, la differenza tra fibre artificiali e sintetiche sta nel materiale di partenza. Le fibre artificiali derivano da quelle naturali, sottoposte a trattamenti e modifiche chimiche. Le fibre sintetiche invece sono prodotte da risorse di combustibili fossili, come petrolio e gas naturale. I tessuti a base di plastica – o “sintetici” – sono onnipresenti, dai vestiti ai pneumatici delle auto, asciugamani, lenzuola, cuscini, tende e tappeti. La più diffusa fibra sintetica, che vanta oltre la metà della produzione globale, è il poliestere (parte della famiglia del PET: la plastica con la quale si producono bottigliette), seguita dal nylon.

Nylon e Lycra, inventati dalla Dupont – insieme al teflon – divennero presto, grazie alla loro elasticità, insostituibili nelle gambe delle donne e non solo (calze, intimo e altro). Il consumo globale di fibre sintetiche è aumentato da poche migliaia di tonnellate nel 1940 a oltre 60 milioni di tonnellate nel 2018, e continua a crescere.

La produzione di fibre sintetiche richiede grandi quantità di energia e contribuisce in modo significativo al cambiamento climatico e all’esaurimento delle risorse di combustibili fossili. Tuttavia, a differenza del cotone – la fibra naturale più comune – la produzione di fibre sintetiche non richiede risorse agricole o l’uso di pesticidi o fertilizzanti tossici. L’impatto ambientale del cotone biologico può essere drasticamente ridotto rispetto al cotone convenzionale, poiché utilizza meno acqua e inquina meno.

Confronto degli impatti ambientali per la produzione di 1 kg di tessuto tinto (fonte: EEA, 2021)
Confronto degli impatti ambientali per la produzione di 1 kg di tessuto tinto (fonte: EEA, 2021)

È possibile confrontare gli specifici impatti ambientali e climatici relativi delle fibre sintetiche e del cotone più comuni, per chilogrammo di tessuto tinto, come mostrato in figura. Il nylon ha il più alto impatto per chilogrammo per il cambiamento climatico e l’uso di combustibili fossili. Per quanto riguarda l’uso del territorio, l’uso dell’acqua, l’eutrofizzazione e la scarsità delle risorse minerali, il cotone ha l’impatto più elevato per chilogrammo. Un confronto simile può essere fatto tra poliestere e cotone: si stima che l’intero ciclo di vita di 1 kg di tessuto in poliestere sia responsabile del rilascio di più di 30 kg di anidride carbonica equivalente, mentre solo circa 20 kg sono associati al cotone (Beton, et al., 2014)

Secondo il rapporto Pulse of the Fashion Industry a cura della Global Fashion Agenda (GFA), un’organizzazione no-profit che promuove la collaborazione sulla sostenibilità del settore della moda, le fibre naturali hanno il più alto impatto ambientale, con la seta che ha un effetto particolarmente dannoso per quanto riguarda l’esaurimento delle risorse naturali e il riscaldamento globale, il cotone che contribuisce eccessivamente alla scarsità d’acqua e la lana alle emissioni di gas serra (GHG). Tuttavia, l’industria sta testando anche fibre naturali meno utilizzate, come canapa, lino e ortica, che richiedono meno acqua, fertilizzanti e pesticidi.

Secondo il Piano d’azione europeo per l’abbigliamento (ECAP), un progetto finanziato dall’UE per affrontare la sostenibilità dell’abbigliamento, il poliestere, ricavato da combustibili fossili, rappresenta il 16% delle fibre utilizzate nell’abbigliamento. I suoi principali vantaggi sono che, a differenza del cotone, ha un’impronta idrica inferiore, deve essere lavato a temperature più basse, si asciuga rapidamente e difficilmente necessita di stiratura e può essere riciclato in fibre vergini (nuove). Tuttavia, rilasciano microplastiche nell’ambiente. Poliestere riciclato, ottenuto principalmente da bottiglie di plastica, ha aumentato la propria quota di mercato dall’8 % nel 2007 al 14 % nel 2017.

La moda delle plastiche

Un mare di plastica: ogni anno 11 milioni di tonnellate entrano nell’oceano mettendo in pericolo la vita degli animali e la salute umana. Il mondo ne è sommerso. L’inquinamento dei mari, terra e aria, passa anche dalle più piccole microplastiche e nanoplastiche. Ma, sebbene alcune microplastiche siano prodotte appositamente per applicazioni dedicate (cosmetici, filtri, tamponi), la maggior parte è il risultato degli agenti atmosferici e del degrado dei prodotti in plastica. Tra le altre fonti, l’abrasione dovuta all’uso e il lavaggio dei tessuti sintetici è una fonte significativa di microplastiche nell’ambiente, responsabile dello scarico negli oceani fino a 0,5 milioni di tonnellate di microplastiche l’anno.

L'abrasione dovuta all’uso e il lavaggio dei tessuti sintetici rilascia una quantità enorme di microplastiche nell'ambiente
L’abrasione dovuta all’uso e il lavaggio dei tessuti sintetici rilascia una quantità enorme di microplastiche nell’ambiente

Le microfibre tessili sono un problema enorme. I nostri vestiti sono in gran parte a base di plastica (poliestereacrilico e nylon, costituiscono circa il 60% di tutti i tessuti per indumenti) e, quando li laviamo, finiscono nelle nostre lavatrici come microfibre. A causa dell’abrasione, quando vengono lavati o indossati, questi tessuti rilasciano microplastiche note come microfibre. Secondo un rapporto UNEP del 2020 , circa il 9% delle perdite annuali di microplastica nell’oceano proviene dai prodotti tessili.

Secondo una ricerca portoghese, un singolo carico di bucato può rilasciare fino a 18 milioni di microfibre e questi minuscoli pezzi di plastica finiscono nei mari, nelle terre, nei fiumi e persino nell’aria. E, da qui nella catena alimentare, dagli animali fino alla frutta e verdura. Uno studio canadese ha rivelato che l’Artico è invaso dalle fibre sintetiche, che costituiscono il 92% delle microplastiche trovate nelle acque di superficie.

La cosa è ben più grave, se si considera che, nella produzione e lavorazione dei tessuti, vengono utilizzati additivi e prodotti chimici gravemente inquinanti, come Pesticidi, Solventi, Tensioattivi, Coloranti e pigmenti, Plastificanti, Idrorepellenti e antimacchia, Ritardanti di fiamma, Biocidi. Senza dimenticare che l’impermeabilizzazione dei tessuti è causa di inquinamento da PFAS.

La distruzione dei tessili resi e invenduti in Europa

Negli ultimi anni, il fast fashion e i marchi di lusso hanno distrutto abiti, scarpe e altri tessuti nuovi, restituiti o invenduti. La distruzione dei prodotti tessili nuovi fa parte dell’odierno sistema economico e produttivo di tipo linearetake-make-dispose” responsabile di gravi impatti ambientali.

Un recente Rapporto dell’EEA fornisce una panoramica sui volumi della distruzione dei prodotti tessili restituiti e invenduti in Europa. La crescita dello shopping online, le pratiche di restituzione flessibili, le mutate preferenze dei consumatori e le strategie commerciali del fast fashion in Europa hanno portato ad un aumento degli abiti restituiti e invenduti.

Abiti resi, invenduti e distrutti in Europa
Abiti resi, invenduti e distrutti in Europa (fonte: EEA)

Si stima che il 4-9% di tutti i prodotti tessili immessi sul mercato in Europa vengano distrutti prima dell’uso, per un totale compreso tra 264.000 e 594.000 tonnellate di tessili distrutte ogni anno. In media, la restituzione degli indumenti acquistati online è stimata al 20%: viene restituito un capo su cinque venduti online. Il tasso di reso per i prodotti venduti online è fino a tre volte superiore rispetto a quello dei prodotti venduti nei negozi fisici. Un terzo di tutti gli indumenti restituiti acquistati online, finisce per essere distrutto. La quota media di prodotti tessili invenduti rilevata nella letteratura di ricerca è del 21%, la gran parte dei quali finisce per essere distrutto.

Si stima che la lavorazione e la distruzione dei tessili restituiti o invenduti siano responsabili fino a 5,6 milioni di tonnellate di emissioni di CO2 equivalenti, una cifra leggermente inferiore alle emissioni nette della Svezia nel 2021.

I tessili restituiti e invenduti rappresentano una sfida per il settore. Di recente, l’Unione Europea ha approvato una legge, il Regolamento (UE) 2024/1781, che vieta la distruzione degli abiti resi e invenduti in Europa a partire dal 19 luglio 2026: la Ecodesign for Sustainable Products Regulation (ESPR), entrata in vigore il 18 luglio 2024, ha un approccio verso la circolarità e prodotti più sostenibili dal punto di vista ambientale.

L’impatto ambientale dei rifiuti tessili

A livello globale, l’industria della moda è responsabile della produzione di circa 40 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno, la maggior parte delle quali viene conferita in discarica o incenerita. Meno della metà degli abiti usati viene raccolta per essere riutilizzata o riciclata, e solo l’1% degli abiti usati viene riciclato in abiti nuovi, poiché solo ora iniziano ad emergere le tecnologie che consentirebbero di riciclare gli abiti in fibre vergini.

In media gli europei utilizzano quasi 26 chili di prodotti tessili e ne scartano circa 11 chili ogni anno. Gli indumenti usati possono essere esportati al di fuori dell’UE, ma per la maggior parte (87%) vengono inceneriti o smaltiti in discarica.

L’impatto ambientale dei rifiuti tessili

La raccolta, lo smistamento e il pretrattamento limitano la quantità di rifiuti tessili resi disponibili per il riciclaggio da fibra a fibra. Attualmente la percentuale di raccolta si aggira in media tra il 30 e il 35% e gran parte dei rifiuti lordi indifferenziati viene esportata al di fuori dell’Europa.

Nel 2020 i maggiori esportatori di abiti usati sono stati gli USA (valore commerciale netto di 585 milioni di dollari), Cina (valore commerciale netto di 366 milioni di dollari), Regno Unito (valore commerciale netto di 272 milioni di dollari), Germania (valore commerciale netto di 258 milioni di dollari) e Corea del Sud (valore commerciale netto di 272 milioni di dollari). $ 256 milioni). I maggiori importatori sono stati il Ghana (valore commerciale netto di 181 milioni di dollari), Ucraina (valore commerciale netto di 154 milioni di dollari), Nigeria (valore commerciale netto di 123 milioni di dollari), Kenya (valore commerciale netto di 122 milioni di dollari) e Tanzania (valore commerciale netto di 102 milioni di dollari).

L’usato dell’occidente è la discarica del Terzo Mondo

Il commercio globale di abiti di seconda mano è decuplicato tra il 1990 e il 2004, raggiungendo un valore di circa 1 miliardo di dollari, e il valore di mercato degli abiti di seconda mano è stato di 36 miliardi di dollari nel 2021, con una previsione di crescita esponenziale.

Il report di GreenpeacePoisoned Gifts”, narra come i rifiuti tessili siano camuffati da abiti usati ed esportati nell’Africa orientale. Nel 2022 Greenpeace Germania è andata in Kenya a documentare il fenomeno delle esportazioni di abiti occidentali in Africa orientale: un vero e proprio business che consiste nell’acquisto di balle di vecchi abiti dai Paesi più sviluppati da parte di rivenditori locali che poi li distribuiscono nei mercati dei Paesi in via di sviluppo. Molti di questi abiti, per via della loro scarsa qualità, non vengono immessi sul mercato e spesso finiscono per essere abbandonati in discariche a cielo aperto.

Discarica di vestiti usati, resi o invenduti della Fast Fashion (Ghana)
Discarica di vestiti usati, resi o invenduti della Fast Fashion (Ghana)

I paesi “poveri” come il Ghana sono stati resi dipendenti da quel mercato dell’usato occidentale che, da una parte lo invoca come fonte di reddito (per il venditore) e di risparmio (per l’acquirente che lo paga poco). Ma finiscono per diventare, l’inconsapevole discarica dei rifiuti dei più ricchi. Dal 2023 il Ghana è la discarica più grande al mondo di vestiti usati. Ne arrivano 15 milioni ogni settimana producendo da una parte un filo di economia per la popolazione locale, dall’altra un’immane catastrofe ambientale.

Atacama fashion week: la settimana della moda nel deserto/discarica del Cile
Atacama fashion week: la settimana della moda nel deserto/discarica del Cile (AFW)

Il deserto di Atacama in Cile è un’immensa discarica di vestiti, considerato il cimitero della fast fashion. Per sensibilizzare l’attenzione sul problema, ogni anno si svolge l’“Atacama fashion week” è la prima settimana della moda l’eccentrica sfilata nella più grande discarica della moda.

Il caporalato nella moda: la moderna schiavitù del profitto

L’inchiesta “Untold: inside the Shein machine”, condotta nel 2022 dalla rete televisiva britannica Channel 4, ha rivelato che i lavoratori di Shein ricevono quattro centesimi per ogni capo realizzato, producono 500 capi al giorno, e che la loro giornata lavorativa dura mediamente 18 ore. Non solo: ai dipendenti spettano solo un giorno libero al mese e nessuna pausa durante la giornata. Lo stipendio mensile è di circa 4.000 yuan (circa 550 euro) e il primo mese viene trattenuto dal datore di lavoro. Per ogni errore commesso, infine, vengono trattenuti i due terzi della paga giornaliera.

Il caporalato del lavoro, Fabbrica in Bangladesh
Fabbrica in Bangladesh

Sembra che poco o niente sia cambiato dai tragici eventi di Rana Plaza a Dacca in Bangladesh, la più immane tragedia nella storia dell’industria tessile, dove persero la vita più di mille persone e che fece conoscere al mondo intero le atrocità sociali e ambientali della moda a basso costo.

La moda a basso costo si basa sullo sfruttamento delle risorse (umane e naturali), per poter massimizzare i profitti delle aziende. Un costo basso per i consumatori, ma elevatissimo per i lavoratori del settore (salari da fame e turni di lavoro massacranti) e per l’ambiente (in termini di inquinamento). A scapito della salute e sicurezza  Casi di sfruttamento dei lavoratori nell’industria della moda passati alla cronaca sono quelli di Alviero Martini, Giorgio Armani, Dior. H&M e Zara sono invece coinvolte nella deforestazione del Brasile. Alcott, il marchio Made in Italy che guarda all’America, invece punta sulla sostenibilità: capi pensati per durare più a lungo ed essere riciclati.

L’ultra fast fashion di SHEIN

Secondo il recente rapporto di Greenpeace Germania (Taking the Shine off SHEIN), la fast fashion del marchio di moda SHEIN è un modello di business basato su sostanze chimiche pericolose e distruzione ambientale. Un bel paradosso per l’azienda cinese che, in italiano, si traduce come splendente o brillante.

L’ultra fast fashion di SHEIN

È la cosiddetta moda ultraveloce, quella di SHEIN, che negli ultimi anni è cresciuta in modo esponenziale commercializzando migliaia di nuovi design ogni giorno a giovani e persino bambini tramite i social media, per poi produrli in pochi giorni in una rete di migliaia di fornitori in Cina, addirittura a prezzi inferiori dei suoi concorrenti con la velocità della sua produzione e con i suoi prodotti ultra economici, di bassa qualità e usa e getta. Il problema è che questo nuovo modello di business “ultrafast” spinge agli estremi del consumo eccessivo, nella creazione di rifiuti tessili e nello sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente nella sua catena di fornitura.

Greenpeace Germania ha acquistato 47 articoli, inclusi indumenti e calzature per uomo, donna, bambino e neonato, dai siti web SHEIN in Austria, Germania, Italia, Spagna e Svizzera. I test eseguiti sui prodotti hanno rilevato che sette di essi (15%) contenevano sostanze chimiche pericolose che infrangevano i limiti normativi dell’UE (cinque di questi per oltre il 100%), mentre 15 prodotti (32%) avevano sostanze chimiche pericolose a livelli preoccupanti. I risultati includono livelli molto elevati di ftalati nelle scarpe e formaldeide nel vestito di una bambina.

Nella sua essenza, il modello di business lineare del fast fashion è totalmente incompatibile con un futuro rispettoso del clima – ma l’emergere della moda ultra fast sta accelerando ulteriormente la catastrofe climatica e ambientale e deve essere fermata sul suo cammino attraverso una legislazione vincolante.” ha dichiarato Viola Wohlgemuth, attivista di Greenpeace Germania.

Afferma Greenpeace che, per consegnare ad una velocità più sostenuta – ultra fast – dei suoi concorrenti (fino a 3 volte di Zara) tramite aereo ai clienti in tutto il mondo, il modello di business di SHEIN si basa sulla mancanza di applicazione delle normative volte a proteggere l’ambiente, la salute e la sicurezza dei lavoratori e dei consumatori, poiché l’azienda viola regolarmente le normative.

Greenpeace e Report: la lunga marcia dei resi

Abiti acquistati e poi resi più volte. Le politiche di reso spesso gratuite che incoraggiano l’acquisto di vestiti usa e getta sono l’ennesimo tassello di un settore che genera un impatto ambientale enorme. Pacchi di vestiti che viaggiano anche per decine di migliaia di chilometri tra l’Europa e la Cina, senza costi per l’acquirente e con spese irrisorie per l’azienda produttrice, ma con enormi impatti ambientali: è quanto è emerso dall’indagine condotta dall’Unità Investigativa di Greenpeace Italia che per quasi due mesi, in collaborazione con la trasmissione televisiva Report, ha tracciato i viaggi compiuti da alcuni capi d’abbigliamento del settore del fast-fashion acquistati e resi tramite piattaforme di e-commerce, svelando una filiera logistica schizofrenica, i lunghissimi viaggi e l’impatto ambientale in termini di emissioni di CO2 equivalente.

Fast fashion: Greenpeace e Report, la lunga marcia dei resi

Insieme ai giornalisti della trasmissione Report di Rai 3, l’Unità Investigativa di Greenpeace ha acquistato 24 capi di abbigliamento di fast fashion dall’e-commerce di otto aziende (3 capi ciascuna): Amazon, Temu, Zalando, Zara, H&M, OVS, Shein e ASOS. L’indirizzo di spedizione fornito ai venditori è stato lo stesso per tutti. Una volta ricevuti i pacchi, prima di restituirli ai venditori hanno nascosto al loro interno un localizzatore GPS.

In 58 giorni i vestiti hanno percorso nel complesso circa 100mila chilometri. I pacchi hanno attraversato ben 13 Paesi europei e la Cina. La distanza media percorsa dai prodotti per consegna e reso è stata di 4.502 km. Il tragitto più breve è stato di 1.147 km, il più lungo di 10.297 km. Il mezzo di trasporto più usato è risultato il camion (54.222 km), seguito da aereo (34.123 km), furgone (8.290 km) e nave (2.310 km). I 24 capi di abbigliamento sono stati venduti e rivenduti in tutto 40 volte, e resi per ben 29 volte: dopo quasi due mesi, 14 indumenti su 24 (pari al 58%) non sono ancora stati rivenduti. Tutti i capi di abbigliamento di Temu sono stati spediti dalla Cina e hanno percorso oltre 10 mila chilometri (principalmente in aereo): a oggi, nessuno risulta rientrato nelle disponibilità del venditore dopo il primo reso. ZARA e ASOS hanno rivenduto un solo capo su tre (33%). Mentre il 100% dei capi resi a Temu, OVS e Shein non è ancora stato rivenduto.

Con la start up INDACO2 hanno stimato che l’impatto medio del trasporto di ordini e resi è risultato pari a 2,78 kg CO₂ equivalente: il packaging incide per circa il 16% su queste emissioni. In media, per il confezionamento di ogni pacco sono stati usati 74 g di plastica e 221 g di cartone. Prendendo come esempio l’impatto di un paio di jeans (del peso medio di 640 g), il trasporto del capo ordinato e reso comporta un aumento di circa il 24% delle emissioni di CO₂.

Greenwashing, quell’apparente sostenibilità

Greenpeace accusa le aziende del fast fashion di fare greenwashing, quella strategia di comunicazione di finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale. In un rapporto del 2023 – “Greenwash danger zone” –  Greenpeace verifica cosa si cela dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di marchi internazionali, controllando la veridicità di tutte quelle iniziative di marketing green autoprodotte. Nell’indagine sono state controllate le iniziative di 29 aziende che aderiscono alla campagna Detox (H&M, Zara, Benetton, Mango etc.) e quelle di altri marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia.

Fast fashion e Greenwashing: quell’apparente sostenibilità

Seppur con alcune eccezioni, l’indagine rivela come l’industria della moda, con un sistema di etichette autoprodotte presenti su molti vestiti, comunica ciò che in realtà non è. La moda a basso costo si basa su un’economia lineare e il suo devastante impatto ambientale e sociale non emerge dai claim di sostenibilità dei marchi della moda. Molti prodotti sono spesso accompagnati da termini come “eco”, “green”, “cares” e da etichette che richiamano alla circolarità.

Dall’analisi effettuata da Greenpeace è stata redatta la seguente classifica dei marchi:

  • Verde: Coop Naturaline, Vaude Green shape
  • Giallo: Tchibo Gut Gemacht (Well made)
  • Rosso: Benetton Green Bee, C&A Wear the Change, Calzedonia Group, Decathlon Ecodesign, G-Star Responsible materials, H&M Conscious, Mango Committed, Peek & Cloppenburg we care Together, Primark Cares, Tesco F&f Made Mindfully, Zara Join life.

Ne risulta che il modello del fast fashion non può essere definito sostenibile. Su 29 aziende, solo 2 hanno superato il test a pieni voti con un bollino verde. La gran parte sono state invece etichettate con un bollino rosso che evidenzia enormi criticità. Se i marchi vogliono evitare il “greenwashing”, devono dimostrare che stanno apportando cambiamenti significativi e credibili, rispettando i requisiti normativi emergenti, e le questioni etiche e ambientali.

Riciclo, riuso e rigenerazione degli abiti: gli esempi virtuosi

Attualmente, solo l’1% degli abiti usati vengono riciclati in capi nuovi. Le nuove strategie includono lo sviluppo di nuovi modelli di business per il noleggio di abbigliamento, la progettazione dei prodotti “ecodesign” che consente il facile riutilizzo e riciclo (moda circolare), sensibilizzare i consumatori ad acquistare meno capi di migliore qualità (moda sostenibile) e in generale orientare il comportamento dei consumatori verso opzioni più sostenibili. La nuova strategia europea comprende nuovi requisiti di progettazione ecocompatibile per i tessuti, informazioni più chiare, un passaporto digitale dei prodotti e l’invito per le aziende ad assumersi la responsabilità e ad agire per ridurre al minimo la propria impronta di Co2 e ambientale. Vediamone alcuni esempi.

Riciclo, riuso e rigenerazione degli abiti: gli esempi virtuosi

I benefici ambientali raggiungibili da un processo di rigenerazione della lana rispetto a un processo vergine si possono sintetizzare come segue:

  • risparmio di acqua al 90%: è un processo principalmente meccanico, gli scarti tessili vengono dentellati, trinciati;
  • risparmio di prodotti chimici al 90%;
  • risparmio di energia al 77%;
  • risparmio di CO2 al 95%: producono tutto a KM30, il raggio del distretto tessile di Prato risparmiando i consumi di carburante;
  • risparmio di coloranti al 100%: il filo non viene ritinto (per intendersi: da 10 maglioni blu rigenerano il filato blu).

Nazena, una startup innovativa che recupera e ricicla gli scarti tessili pre e post consumo per trasformarli in nuovi prodotti, dal packaging fino ai pannelli fonoassorbenti. Grazie al riciclo delle fibre tessili, Nazena trasforma scarti tessili industriali e vestiti usati in nuovi prodotti. Una soluzione di economia circolare per portare il settore della moda all’innovazione e alla sostenibilità. Dal packaging agli allestimenti passando per oggetti di design e pannelli acustici.

Caterina Grieco di Paladina, dalle prime creazioni nate con le stoffe dell’armadio della madre agli scarti tessili: a 25 anni ha creato il marchio di moda «Catheclisma», che realizza capi utilizzando resti e scarti tessili, prodotti invenduti, dimenticati o in eccesso. Rifò è una linea di abbigliamento e accessori completamente rigenerata. Dopo aver raccolto gli scarti tessili, averli trinciati e trasformati in un nuovo filato, questi vengono riconfezionati in un nuovo accessorio o capo di abbigliamento. Questo processo permette di riciclare scarti tessili, di risparmiare risorse limitate come l’acqua e di non utilizzare coloranti. Re-Bello, la rigenerazione della moda col riuso dei rifiuti di nylon. Quagga, la plastica diventa felpa etica.

Rafael Kouto, uno dei designer più interessanti nel panorama dell’upcycling, realizza veri e propri progetti di coutore. In Italia è interessante anche l’esperienza di Nasco Unico, che realizza blazer su misura da materiale di recupero. Anche Vernisse recupera avanzi di tessuti, maglieria, scampoli, per realizzare abiti che raccontano un nuovo concetto di lusso. Bellissime e visionarie sono le collezioni del marchio fiorentino AVAVAV.

Eppoi, anziché acquistare capi nuovi ci si può sempre rivolgersi all’usato, acquistando dalla persona che vende (su Facebook, Subito, Vinted), o frequentando i mercatini dell’usato. Se ci troviamo a Torino, il Gran Baloon. A Roma, i miei mercatini del cuore, oltre al celebre via Sannio, si trovano a Piazzale Flaminio (metro A), al Quadraro (via del Quadraro) a Centocelle (via della Primavera, metro Gardenie), oppure ci sono i franchising “mercatino dell’usato” sparsi in tutta l’urbe.

Prospettive per un’industria della moda sostenibile

Secondo Ellen MacArthur Foundation, una nuova economia tessile, che sia davvero sostenibile, ha quattro obiettivi principali, coerenti coi principi dell’economia circolare:

  1. Eliminare gradualmente le sostanze problematiche e il rilascio di microfibra
  2. Trasformare il modo in cui gli abiti vengono progettati, venduti e utilizzati per liberarsi dalla loro natura sempre più usa e getta
  3. Migliorare radicalmente il riciclaggio trasformando la progettazione, la raccolta e il ritrattamento degli indumenti
  4. Fare un uso efficace delle risorse e passare a input rinnovabili

L’azione per raggiungerli deve adottare un approccio coordinato e sistemico, assicurandosi che i progressi in un settore non ostacolino i progressi in un altro.

Soluzioni per un’industria della moda sostenibile (fonte: Ellen MacArthur Foundation)
Soluzioni per un’industria della moda sostenibile (fonte: Ellen MacArthur Foundation)

L’obiettivo 1 è essenziale per soddisfare il primo principio di un’economia circolare: eliminare i rifiuti e l’inquinamento. Le ambizioni 2 e 3 applicano il secondo principio di un’economia circolare: mantenere i prodotti e i materiali al loro massimo valore.

L’aumento dell’utilizzo dell’abbigliamento sfrutta i circuiti più interni di un’economia circolare, mantenendo così i vestiti al loro massimo valore. Una volta che non vengono più utilizzati, il riciclaggio conserva il valore dei materiali a diversi livelli. L’ambizione 4 è legata a tutti i principi di un’economia circolare: una nuova economia tessile elimina i rifiuti durante la produzione tessile, utilizza le risorse in modo efficace ed efficiente e si muove verso l’utilizzo delle risorse rinnovabili in modo rigenerativo.

Il riciclo dei capi d’abbigliamento può essere eseguito a vari livelli, dai tessuti al filato, dai polimeri fino ai monomeri (o altri materiali costituenti che possono poi servire come materia prima per produrre polimeri di qualità vergine). Durante il processo è possibile rimuovere coloranti, fibre non bersaglio in piccole quantità e altri contaminanti.

Per un futuro sostenibile, ridurre l’inquinamento e l’impatto ambientale fino a raggiungere l’obiettivo della neutralità climatica (che l’UE si è data al 2050), oltre all’auto elettrica – in alternativa ai motori a combustione – e le batterie ricaricabili per la transizione energetica, le energie rinnovabili, gli edifici nZEB, c’è bisogno di ridurre la produzione dei rifiuti – soprattutto in plastica – e dei capi d’abbigliamento alla maniera del fast fashion. Ovvero occorre diminuire la produzione di massa, ridurre il consumismo cieco e sfrenato di beni e servizi alla misura necessaria. Rinunciare al narcisismo della moda per riappropriarsi di quella dimensione umana che misura i desideri con la realtà del bisogno.

Scelte di fibre sostenibili: la scelta delle fibre non solo definisce le proprietà e le prestazioni del prodotto tessile, ma determina anche l’impatto ambientale del prodotto risultante e influenzerà il destino dei tessuti sintetici durante il resto del loro ciclo di vita. Sebbene il passaggio alle fibre naturali o di origine biologica possa ridurre gli impatti derivanti dall’uso delle risorse di combustibili fossili e dalle emissioni di gas serra, queste fibre non sempre hanno proprietà equivalenti e non sono necessariamente più sostenibili durante l’intero ciclo di vita.

Miglioramento della raccolta differenziata, del riutilizzo e del riciclaggio. L’Europa, con la Direttiva quadro sui rifiuti ha reso obbligatoria la raccolta differenziata dei rifiuti tessili in tutti gli Stati membri dell’UE a partire dal 1° gennaio 2025.

A lungo termine, e soprattutto, le aziende dovrebbero investire nell’innovazione lungo tutta la filiera, con l’obiettivo di contribuire a ridurre l’impatto della moda sul pianeta. La normativa EPR, sulla responsabilità estesa del produttore, dovrebbe creare un sistema che permetta di gestire i tessili usati nella maniera più efficiente, rafforzando economie collegate al riuso e al riciclo dei tessili, e quindi creando un meccanismo che dovrebbe autofinanziarsi, grazie alla previsione di un contributo da parte delle imprese. Ad oggi sono tre i Paesi che hanno approvato una normativa EPR e sono tutti in Europa: Francia, Paesi Bassi, Ungheria. Sono molti però i Paesi in cui la norma è in discussione: oltre alla normativa europea, in fase di studio, anche Australia, Ghana, Kenya, Colombia, California, New York, stanno cercando di elaborare il proprio sistema di responsabilità del produttore per i tessili.

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