Fotovoltaico integrato: le potenzialità dei materiali alternativi al silicio

Kesteriti, seleniuro di antimonio, pirite sono solo alcuni dei materiali, alternativi al silicio e alla perovskite, che sono oggetto della ricerca per il futuro del fotovoltaico perché presentano promettenti caratteristiche.

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Fotovoltaico integrato: le potenzialità dei materiali alternativi al silicio

Il fotovoltaico integrato e flessibile sarà sempre più richiesto. L’impiego sotto forma di Building Integrated Photovoltaics (BIPV) è uno dei campi applicativi più interessanti, ma ce ne sono altri emergenti, dalle auto ai wearable device.

La ricerca di tecnologie fotovoltaiche in grado di soddisfare perfettamente le svariate esigenze è da tempo un ramo attivo della ricerca solare. I materiali allo studio sono diversi, tra questi ci sono le kesteriti (Cu2ZnSnSe4) e il seleniuro di antimonio (Sb2S3).

Kesteriti: materiali interessanti per il fotovoltaico integrato

Negli ultimi anni, grazie alle loro caratteristiche di materiali sostenibili, abbondanti, a basso costo, stabili e ad alta efficienza, le kesteriti sono emerse come materiali utilizzabili nel fotovoltaico, capaci di garantire un impatto ambientale minimo. Proprio per questo, il loro sviluppo applicativo è al centro dell’interesse della ricerca.

«Le kesteriti sono dei calcogenuri, composti costituiti da elementi abbondanti in natura, poco costosi e non tossici – spiega Carla Gobbo, dottoranda di ricerca all’Università Milano Bicocca, dove segue un progetto triennale dedicato –. Analogamente a quanto succede con le perovskiti, è possibile modulare il loro band gap, utilizzandole così in diverse applicazioni. Per esempio, a band gap più alto, è possibile usare le kesteriti anche per applicazioni indoor, oppure a band gap più basso, possono essere anche accoppiate con le perovskiti per realizzare moduli tandem. Questo è possibile perché i due materiali riescono ad assorbire la luce in parti diverse dello spettro e di conseguenza, accoppiandoli, è possibile trarre i benefici da entrambi».

Le kesteriti scontano un’efficienza più bassa rispetto alle perovskiti: celle solari in kesterite hanno raggiunto un’efficienza di conversione di poco inferiore al 15%, mentre con le perovskiti si supera il 20%. «Di converso, le kesteriti possono garantire prestazioni più durature nel tempo rispetto alle perovskiti».

Il progetto condotto dal team di ricerca dell’Università Milano-Bicocca, di durata triennale (in collaborazione con ENI), in cui è coinvolta Carla Gobbo, si focalizza sulla produzione di kesteriti su substrato flessibile. Il fine è arrivare a realizzare celle tandem kesterite-perovskite. Un ottimo abbinamento nei Building Integrated Photovoltaics (BIPV), o per oggetti di uso più comune le cui superfici sono curvilinee. «Si sta pensando al loro impiego come soluzioni per il fotovoltaico integrato negli edifici, oppure nelle auto fino ad arrivare ai dispositivi indossabili».

Seleniuro di antimonio: ideale per il thin film

C’è un altro materiale semiconduttore su cui la ricerca è attiva: il seleniuro di antimonio (Sb2 Se3). Su di esso il ThiFiLab (Thin Film Laboratory) dell’Università di Parma, di cui il responsabile è Alessio Bosio, è da tempo al lavoro.

Fotovoltaico innovativo: film di Sb2Se3
Film di Sb2 e Se3. Img by Thifilab di Parma

La ricerca su questo materiale è ancora in una fase embrionale, anche perché è oggetto di studi relativamente recenti: solo nel 2018 il mondo della ricerca ha cominciato a interessarsi più seriamente a un suo possibile impiego nel fotovoltaico, quando per la prima volta l’efficienza di una cella a base di Sb2Se3 superò il 7%.

«Seppure sia ancora poco conosciuto, su questo materiale è aumentato l’interesse in questi ultimi 5-6 anni perché si ritiene promettente – spiega Gianluca Foti, assegnista di ricerca presso il ThiFiLab–. Lo è perché si presta a essere impiegato come materiale assorbitore in celle solari innanzitutto perché ha un alto coefficiente di assorbimento della luce visibile anche in spessori molto piccoli, prestandosi idealmente nell’impiego come thin film. Ha una buona capacità di assorbire gran parte dello spettro solare, garantendo teoricamente un’elevata efficienza per quello che riguarda i materiali semiconduttori».

Il vantaggio del seleniuro di antimonio è la sua relativa abbondanza, specie rispetto ad altri materiali che hanno caratteristiche simili (per esempio, il tellururo di cadmio), che lo rendono decisamente interessante, data la necessità di sviluppare la tecnologia fotovoltaica in modo consistente e pervasivo nei prossimi anni. Anche l’indio (elemento imprescindibile della tecnologia CIGS) è abbastanza problematico non tanto per la reperibilità ma quanto per il costo di estrazione in termini energetici. L’antimonio si trova in natura in forma di solfuro o anche in forma elementare (metallico) nei giacimenti. Si aggiunga, quale ulteriore vantaggio, una tossicità irrilevante del materiale. Sb2Se3 è un materiale fondamentalmente inerte e sicuro, mentre i suoi componenti elementari, selenio e antimonio, sono facilmente maneggiabili senza particolari precauzioni.

Le potenzialità di impiego di materiali nuovi: dall’antimonio alla pirite

Perché il seleniuro di antimonio sia di interesse per l’impiego nel fotovoltaico, integrato e non, lo specifica bene il professor Bosio. «Detto che la cella fotovoltaica è un diodo a giunzione p-n, uno dei vantaggi di Sb2Se3 è che nasce già di tipo p, proprio come deve essere un materiale assorbitore. Seppure ci siano tanti altri materiali adottabili come assorbitori sotto forma di film sottili e con energy gap particolarmente adatte per essere utilizzati come assorbitori in celle solari, non tutti sono facilmente utilizzabili».

Il seleniuro di antimonio, proprio per questi vantaggi, è divenuto un elemento di punta della linea di ricerca del ThiFiLab. «Oltre al Sb2Se3 c’è anche il solfuro di antimonio, materiale che, avendo la stessa struttura cristallina del suo “fratellino” seleniuro, si presta a formare un composto misto dove lo zolfo sostituisce il selenio in concentrazioni controllabili. Ciò permette di ingegnerizzare l’energy gap e le potenzialità di conversione dell’energia luminosa visibile – specifica Bosio –. L’aspetto di interesse è rappresentato dal fatto che questi due materiali migliorano le prestazioni, mescolandosi intimamente. Inoltre, è attiva la ricerca anche sulle possibilità di impiego di solfuro di ferro, altrimenti conosciuto come pirite». Si tratta, in quest’ultimo caso, del solfuro più abbondante della crosta terrestre, composto da zolfo e da ferro, entrambi molto abbondanti. La pirite presenta un adeguato band gap, un elevato coefficiente di assorbimento e un basso costo. Tuttavia, non sono state ancora studiate caratteristiche premianti per un suo impiego.

«Il futuro del fotovoltaico deve guardare a materiali che possono essere depositati sotto forma di film sottili con tecnologie semplici, non tanto e non solo per questioni di costo, ma per la semplicità di trasferimento tecnologico dalla scala di laboratorio a quella industriale». A questo proposito il ThifiLab ha già condotto qualche anno fa un progetto di trasferimento tecnologico dal laboratorio all’industria con celle solari a base di tellururo di cadmio.

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